«Nel mondo ci sono i suoni».
Ah sì?
E qualcosa li accoglie
e li abbandona?
Vie di mare,
perdute e abissali.
L’universo non ha un centro,
ma per abbracciarsi si fa così:
ci si avvicina lentamente
eppure senza motivo apparente,
poi allargando le braccia,
si mostra il disarmo delle ali,
e infine si svanisce,
insieme,
nello spazio di carità
tra te
e l’altro.
Chandra Livia Candiani
Chandra Livia Candiani, poetessa nostrana, intreccia delicate rime di ragnatela, quasi impercettibili nella loro leggerezza, poesie oniriche e discrete, la parola tesa all’ascolto.
Per la sua presentazione voglio rimandarvi a questo brano di qualche anno fa che ho avuto da poco la fortuna di ricevere, certa che i suoi giochi di luce sapranno stregarvi a dovere così come è successo a me –> https://vibrisse.wordpress.com/2014/03/17/la-formazione-della-scrittrice-10-chandra-livia-candiani/
Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce.”
Nel mondo ci sono i suoni, vibrazioni acute e gravi, pronfonde, sottili. Suoni di ogni tipo, rumori di ogni genere che riempiono l’aria intorno a noi, aria misteriosa, aria viva.
Fruscii, sussurri, tintinii, botti, battiti, fischi, voci, sillabe, parole, accenti.
Tutto scorre nello sfondo della nostra attenzione, coperto dalla lettura dei nostri pensieri, dallo scrosciare del respiro.
E qualcosa li accoglie
e li abbandona?
Giusto domandarselo quando solitamente tutto scivola via, a ruota libera, raramente domato. Uno per tutti e tutti nei propri suoni, ognuno nel suo centro, ognuno per sé. Trottole indomabili che ruotano infinitamente intorno al proprio asse, veste di fantasma sfocata senza incontrarsi mai, in un continuo sibillio.
In una delle sue definizioni la Treccani dice che accògliere v. tr. [lat. *accollĭgĕre, «cogliere, raccogliere»] sta per – 1.a. Ricevere, e in particolare ricevere nella propria casa, ammettere nel proprio gruppo, temporaneamente o stabilmente; soprattutto con riguardo al modo, al sentimento, alle manifestazioni con cui si riceve. –
Accogliere i suoni, aprire le finestre e lasciarli inerpicare in ogni angolo della casa, strusciare tra le tende, annodarsi ai denti del pettine, sfumare nell’ombra sotto il comodino. Accoglierli di proposito, salutarli e scambiarci due parole sul tempo, giusto i convenevoli per disporre l’animo all’ascolto, disporsi a leggere il mondo attraverso le sue parole più evidenti, le più nascoste.
L’universo non ha un centro,
ma per abbracciarsi si fa così:
Ed è così che la serranda la mattina si tinge di almeno un centinaio di storie: l’inizio di una nuova giornata, lo sbadiglio di chi si è alzato presto, le preoccupazioni di non riuscire a pagare l’affitto. Una sirena diventa il dolore di qualcuno, la concentrazione di un soccoritore, le lacrime di una donna diventata mamma all’improvviso. Le campane il suono dell’ora di pranzo, della lasagna nel forno, della preghiera del credente, del ritardo del solito ritardatario di corsa.
poi allargando le braccia,
si mostra il disarmo delle ali,
e infine si svanisce,
insieme,
E allora che si apre un affaccio vertiginoso e le trottole iniziano a viaggiare. L’orecchio si tende, curioso ormai, consapevole nel suo esercizio di ascolto e accoglienza. Uno per tutti e tutti per i suoni degli altri, suoni in comune di gesti in comune di vite in comune in storie completamente diverse e uguali alle nostre.
Mi piace immaginare questa poesia come un esercizio di fiducia, una consegna nascosta tra le righe. In un momento dove gli abbracci sono dedicati a pochissimi, dove lo sguardo con l’altro è spesso fuggitivo, dove la fiducia è troppo cara per essere regalata per strada, voglio lanciare una proposta per chi avrà il piacere di provare: affacciatevi alla finestra, fate una passeggiata, sedetevi da qualche parte, basterà un taccuino e tendere l’orecchie, ascoltare e immaginare, immedesimarsi per non sentirsi più tutti così lontani, aggrapparsi e ritrovarsi al mondo un suono alla volta.